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N° 4

I QUADERNI DI MATERIAS


FENOMENOLOGIA

Effetti giuridici e possibili contenuti del term sheet nelle operazioni di venture capital

di Giovanni Antonio Mazza

09 - 2021

ISBN: 9788899620097


Prefazione

di Luigi Nicolais, presidente di Materias

“Any time is a good time to start a company”.

Questa affermazione in tempi di Pandemia potrebbe risultare errata, ma ad un’attenta analisi dei dati non è così. La diffusione del Virus Covid-19 ha aperto la strada ad una nuova rivoluzione culturale basata sull’innovazione e sulla transizione digitale e l’Italia sta facendo la sua parte.

In questo nuovo numero dei Quaderni di Materias ospitiamo Giovanni Antonio Mazza, Responsabile Supporto Operazioni Straordinarie presso Intesa Sanpaolo. Come sappiamo, la produzione scientifica del nostro Paese si colloca ai vertici dei ranking mondiali. Infatti, l’analisi delle performance della ricerca di base mondiale, mostra che la produttività scientifica dei ricercatori italiani è di ottimo livello: 3,5 articoli pubblicati per ogni milione di dollari investito in ricerca e sviluppo, registrando così livelli di produttività e tassi di crescita molto simili al Canada e al Regno Unito. Inoltre, è acclarato che l’Italia è leader mondiale nella produzione scientifica per numero di citazioni, soprattutto nel settore Life Science.

Tuttavia, analizzando l’impatto industriale della ricerca scientifica italiana sul sistema della competitività del Paese, è evidente che il trasferimento dei risultati della ricerca non è tra i migliori e promettenti. Ma oggi qualcosa sta cambiando, infatti, l’intervento di venture capital e fondi di investimento sta rappresentando per l’Italia una leva finanziaria rilevante capace di rendere il sistema molto più competitivo a livello globale. L’investimento di capitali di rischio in titoli azionari di start-up innovative promuove opportunità di lavoro ad elevata qualificazione per i giovani ed innalza il livello dello sviluppo industriale. Tale forma di investimento non solo è necessaria ma è assodato che contribuisce allo sviluppo qualificato dell’economia nazionale poiché gli investimenti venture capital in start-up innovative promuovono opportunità di lavoro di alto profilo. Il settore, dopo una prima fase naturale di arresto nei primi sei mesi della crisi pandemica e alle difficoltà di natura macroeconomica, sta vivendo un momento di crescita sostenuta in Europa, portando ad un incremento significativo del capitale investito. Come evidenziato dal recente 2020 Annual European Venture Report, i valori delle transazioni del 2020 sono cresciuti quasi del 15 % rispetto al 2019 con un ammontare record significativo di 42,8 miliardi di euro.

I dati di Statista mostrano come la tradizionale eterogeneità culturale storica che vede la Gran Bretagna leader tra i Paesi europei con un investimento di 13 miliardi di euro e 5 nuovi Unicorni nel solo anno 2020, è confermata anche nel valore degli investimenti in termini di quantità e delta annuale. Da un’attenta analisi dei dati, il dominio britannico è stato minato da un incremento vertiginoso dei Paesi di lingua tedesca con un ammontare degli investimenti cresciuto del quasi 60%. Questo quadro di sintesi, nonostante l’evidente gap che si registra nei confronti degli Usa, mostra come L’Europa, con la sua rinnovata strategia rappresenta una grande opportunità di crescita per i VC. Infatti, il Fondo InvestEU, risultante del Piano Juncker, tra il 2015 ed il 2020 ha erogato più di 500 miliardi di euro a sostegno dei Paesi europei. Il Fondo InvestEU prevede oltre 370 miliardi di euro di investimenti di natura pubblica e privata attraverso una garanzia del bilancio dell’UE di 26 miliardi di euro con un apporto chiave dato dalla Banca europea degli investimenti. Inoltre, durante il Digital Day 2021, 24 Paesi hanno firmato la dichiarazione internazionale l’EU Startup Nations Standards (SNS) con la finalità di guidare le start up europee attraverso l’applicazione delle migliori pratiche alla base degli ecosistemi di maggior successo in Europa e nel mondo, con l’obiettivo di incrementare entro il 2030 il numero di unicorni. La necessità di tale accordo nasce dal fatto che il 36% delle startup mondiali ha sede in Europa ma solo il 14% degli unicorni globali si trova qui. È di solare evidenza come investire in una startup comporta un rischio molto elevato. La maggior parte delle start-up non riesce a superare la cosiddetta “valle della morte”: il periodo in cui l’idea deve diventare un prodotto e il prodotto deve incontrare il mercato. In questo stadio del processo di sviluppo in cui si sostengono molti costi con pochi ricavi, in Italia, ad esempio, si sta registrando un trend positivo con gli istituti finanziari.

Secondo i dati del Ministro dello Sviluppo Economico, il numero degli investimenti delle banche in startup innovative ha fatto registrare una tendenza positiva. In un contesto di Open Innovation, gli attori del mondo finanziario sostengono sempre più la teoria che non bastano solo le competenze interne al sistema, ma sono necessarie soluzioni e competenze innovative che arrivano dall’esterno, in particolare dalle startup, fondamentali per la creazione di valore.

Gli istituti finanziari non si limitano ad erogare il credito, ma portano avanti attività dall’alto valore immateriale e qualitativo in termini di formazione, sviluppo e innovazione, al fine di portare le start-up ad uno stadio di piena maturazione attraverso un costante supporto manageriale. Gli istituti finanziari hanno dato vita ad un vero ecosistema dinamico in cui interagiscono, università, centri di ricerca, e fondi di VC.

Tutto questo, attraverso un approccio multisettoriale e di contaminazione ha condotto ad un incremento di start up nel nostro Mezzogiorno, diventato il cuore pulsante dell’innovazione italiana, confermando che “any time is a good time to start a company”.

Introduzione

Nella prassi degli affari il perfezionamento (c.d. closing) di un’operazione di venture capital (per tale intendendosi, agli effetti di questo scritto, l’acquisizione di una partecipazione, per lo più di minoranza, in una start-up da parte di un investitore finanziario con l’obiettivo della relativa valorizzazione e della successiva dismissione entro un periodo di medio-lungo termine) è consuetamente preceduto da un “cerimoniale” di negoziazione tra le parti interessate che risulta tanto più lungo e complicato, quanto più complessa e articolata è la regolamentazione a cui è sottoposto l’investitore potenzialmente interessato a “scommettere” sul business della start-up. Come si avrà modo di ribadire più volte in questo scritto, ben differente risulta, a tal proposito, l’approccio di un investitore c.d. “informale” (variamente definito nella prassi come seed investor, business angel o private investor) rispetto a un investitore c.d. “istituzionale” (quale, per esempio, un fondo di investimento mobiliare di tipo chiuso, una banca o un’impresa di assicurazione).

La prima fase di questo “cerimoniale” consiste nell’accordo di confidenzialità (non-disclosure agreement) che viene in linea di conto quando il potenziale nuovo investitore, dopo i primi informali contatti con la start-up e/o coi relativi soci (c.d. founders), desideri avere informazioni sulla stessa start-up e sulla sua attività che non siano di pubblico dominio o che comunque non siano liberamente accessibili a chiunque. La stipulazione del non-disclosure agreement risulta irrinunciabile quando alla start-up vengano richieste informazioni su esperienze tecnico-industriali o anche semplicemente informazioni commerciali che possono avere (e mantenere) un valore economico, sempreché siano e rimangano segrete (si pensi, per esempio, a particolari know-how o ritrovati tecnici suscettibili di brevetto come invenzione, ma per i quali non sia stata ancora formulata la relativa domanda nelle sedi competenti). Con tale accordo, infatti, il potenziale nuovo investitore s’impegna per un dato periodo di tempo (di regola non meno di due anni) a non divulgare a terzi, salve determinate eccezioni espressamente stabilite, le informazioni ottenute e a non utilizzarle per scopi diversi dalla valutazione dei termini e delle condizioni dell’eventuale operazione di investimento. Benché il non-disclosure agreement vada, evidentemente, a beneficio principalmente della start-up, non sono infrequenti i casi (specialmente qualora alla start-up sia interessato un investitore “istituzionale”) in cui nel medesimo accordo siano stabiliti obblighi a carico della start-up (e talora anche dei relativi founders), tra i quali, per esempio, l’impegno di non divulgare la notizia del possibile interessamento dell’investitore.

Tra le informazioni riservate che qualsiasi investitore ha la necessità di conoscere in questa fase iniziale figura certamente il business plan in cui - fondamentalmente - sono indicati, in relazione all’idea imprenditoriale e al programma di attività che la start-up svilupperà in un arco temporale almeno triennale, gli obiettivi da raggiungere (in termini di fatturato, di risultato economico ecc.), il fabbisogno finanziario e le relative fonti di copertura.

Una volta che l’investitore abbia ricevuto, sotto l’“egida” del non- disclosure agreement, le informazioni essenziali per farsi un’opinione, preliminare e di massima, circa l’an, il quantum e il quomodo del proprio investimento, la negoziazione entra nel vivo. In questa seconda fase, evidentemente cruciale, vengono discussi gli aspetti “chiave” dell’investimento e che riguardano prioritariamente:

  1. il business plan della start-up (in questa sede vengono valutate anche le aspettative di “diluizione” dei founders nel tempo in relazione agli ipotizzati successivi rounds di investimento);
  2. gli aspetti economici dell’operazione e, quindi:
    1. la valorizzazione della start-up (nel caso in cui l’investimento consista nella sottoscrizione di un aumento di capitale o di strumenti finanziari partecipativi convertibili - sempreché la società emittente sia qualificabile come “start-up innovativa” -, il fulcro della negoziazione consiste, appunto, nella determinazione, condivisa tra le parti, della c.d. pre-money valuation della società);
    2. il “prezzo” richiesto all’investitore;
  3. gli aspetti “procedurali” dell’operazione, tra cui, principalmente, lo svolgimento dell’attività di due diligence, le delibere degli organi sociali della start-up, le eventuali condizioni sospensive per il closing, l’adempimento di preliminari obbligazioni a opera delle parti e quant’altro risulti necessario all’implementazione dell’investimento.

In questa stessa fase vengono altresì discusse altre clausole, importantissime specie dal punto di vista dell’investitore “istituzionale”, le quali, però, sono destinate a operare nel periodo successivo al closing tra cui, principalmente:

  1. le legal/business representations and warranties e le connesse clausole di indemnity;
  2. le pattuizioni che riguardano l’amministrazione e il controllo della start-up (c.d. corporate governance);
  3. gli eventuali limiti alla circolazione delle partecipazioni al capitale della start-up;
  4. la modalità e la tempistica del disinvestimento della partecipazione acquisita dall’investitore (c.d. exit), specialmente qualora si tratti di un investitore “istituzionale”.

Nel caso in cui la negoziazione abbia esito positivo, tutte queste pattuizioni sono destinate a trovare la propria collocazione in un apposito contratto (c.d. contratto di investimento) stipulato tra i founders della start-up e il nuovo investitore (la stipulazione del contratto di investimento è consuetamente definita “signing”). Nel contesto del signing o, più frequentemente, del closing si procede normalmente anche:

  1. alla modifica dello statuto della start-up per implementare le tutele e i “privilegi” richiesti dall’investitore (in punto, inter alia, di corporate governance, di limiti alla circolazione delle partecipazioni e di exit);
  2. alla stipula di un patto parasociale (per quanto non si ritenga opportuno o non sia tecnicamente possibile inserire nello statuto della start-up); nonché
  3. alla stipulazione di accordi ancillari, anch’essi molto importanti (specialmente dal punto di vista dei founders), e che riguardano, inter alia, il compenso, la “stabilità” e gli obblighi di non concorrenza delle persone indispensabili per la conduzione del business della start-up (c.d. key people) e eventuali programmi di loro incentivazione.

Qualora i founders della start-up e il nuovo investitore raggiungano subito un accordo su tutti gli aspetti dell’operazione, siano essi essenziali o di mero corollario (cosa che può ben accadere, specialmente qualora si tratti dell’investimento da parte di un investitore “informale”), sarà possibile procedere direttamente con il signing e, a stretto giro, con il closing.

Diversamente, qualora i founders e il nuovo investitore, pur avendo concordato su alcuni aspetti dell’operazione, necessitino di ulteriore tempo per completare la relativa negoziazione, nella prassi si ricorre alla stipulazione di un apposito accordo, variamente denominato come “lettera d’intenti”, “minuta o puntuazione di contratto”, “memorandum of understanding”, “statement of principles” o “heads of agreement” (qui di seguito, semplicemente, “term sheet”), con cui le medesime parti:

  1. si danno reciprocamente atto:
    1. delle principali condizioni e dei principali termini dell’operazione su cui un’intesa di massima è già stata raggiunta tra loro per esempio, gli assunti che portano a ipotizzare un determinata pre-money valuation della start-up);
    2. del loro interesse a proseguire nella negoziazione relativamente a tutto quanto non sia stato ancora definito;
  2. aconcordano le modalità procedurali con cui dar seguito all’ulteriore negoziazione, per esempio, fissando:
    1. l’oggetto dell’eventuale attività di due diligence che il nuovo investitore intende effettuare sulla start-up;
    2. i termini entro cui lo stesso investitore si vincola a sciogliere la propria riserva in merito all’investimento all’esito della stessa due diligence;
    3. i termini massimi entro cui, in caso di esito positivo sia della due diligence sia della successiva negoziazione, arrivare rispettivamente al signing e al closing;
  3. stabiliscono clausole vincolanti (binding) di confidenzialità (eventualmente confermandole, se già preesistenti), di legge applicabile (sempreché si tratti di risolvere un possibile “conflitto di leggi”) e di giurisdizione/competenza (per eventuali controversie derivanti dall’interpretazione e/o dall’esecuzione e/o dalla risoluzione del term sheet).

Qualora nel possibile investimento nel capitale della start-up sia coinvolto un investitore “istituzionale”, tra le pattuizioni binding del term sheet figura il più delle volte l’obbligo di esclusiva per la stessa start-up (sempreché quest’ultima sia parte del term sheet) e dei founders (che s’impegnano ai sensi dell’art. 1381 c.c., anche per il fatto della start- up, qualora essa non figuri direttamente come parte del medesimo accordo). Infatti, ben difficilmente un investitore “istituzionale” accetta di sobbarcarsi l’onere e, soprattutto, i costi della due diligence e dell’ulteriore negoziazione senza essere messo al riparo dal rischio che la start-up e/o i founders possano contemporaneamente sollecitare, avviare, proseguire o concludere, direttamente o indirettamente, trattative con terzi aventi a oggetto la stipulazione di accordi che abbiano per oggetto operazioni sul capitale della stessa start-up.

Sempre qualora nel possibile investimento sia coinvolto un investitore “istituzionale”, la stipulazione del term sheet è normalmente richiesta proprio dallo stesso investitore al fine di far constare per iscritto i termini e le condizioni essenziali del previsto investimento da sottoporre all’autorizzazione dei relativi organi deliberanti, anche per quanto riguarda l’effettuazione della due diligence. Per questo capita nella prassi, specialmente qualora il possibile investitore nella start-up sia un fondo di investimento mobiliare di tipo chiuso specializzato in venture capital, che la stipulazione del term sheet sia preceduta da una “manifestazione di interesse” che è una sorta di light term sheet proposto dal team di investimento del fondo e non ancora approvato dal relativo comitato investimenti. Solo in un secondo momento, sempreché la negoziazione sia proseguita positivamente, al comitato investimenti del fondo viene sottoposta la decisione di autorizzare la stipulazione del (vero e proprio) term sheet e la spesa per la due diligence.

Chiunque si trovi a stipulare un term sheet deve avere ben presente, a scanso di equivoci e, soprattutto, di responsabilità, quale sia la qualificazione giuridica e quali siano gli effetti di quell’accordo che va a sottoscrivere. Sotto il nome di “term sheet”, infatti, si ritrovano nella prassi fattispecie effettivamente molto differenti tra di loro: si va dai meri gentlemen’s agreements (in cui le parti – puramente e semplicemente – si danno reciprocamente atto della volontà di intraprendere una trattativa in vista di un accordo avente un certo oggetto, senza però scendere a considerarne i termini e le condizioni relativi) fino ad accordi che disciplinano in dettaglio tutti gli elementi di una data operazione, sottoponendo l’efficacia dei medesimi accordi a una condizione (non meramente) potestativa apposta nell’interesse di una sola delle parti (come quando, per esempio, sia previsto che l’efficacia degli impegni assunti da un investitore “istituzionale” sia subordinata all’approvazione dell’operazione da parte dei relativi organi deliberanti).

Il term sheet, quand’anche – come avviene di regola – espressamente qualificato come “non vincolante” ai fini del perfezionamento dell’operazione ivi contemplata, è comunque fonte di obblighi giuridici per le parti che la sottoscrivono.

In primo luogo, il term sheet prevede normalmente, come si è detto, specifiche pattuizioni binding, la cui violazione comporta l’insorgere di una vera e propria responsabilità contrattuale, con conseguente obbligo per l’inadempiente, in mancanza di prova che l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, di risarcire il danno subito dalla controparte, ossia la perdita (c.d. danno emergente) e il mancato guadagno (c.d. lucro cessante) in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento (con la precisazione che, se l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento non dipenda da dolo della parte obbligata, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione).

Tuttavia, anche in relazione alle pattuizioni espressamente qualificate nel term sheet come “non vincolanti” sussiste l’obbligo (irrinunciabile) stabilito dall’art. 1337 c.c., secondo cui “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. Infatti, contravviene a tale obbligo, divenendo passibile di responsabilità precontrattuale, chi dopo la stipulazione del term sheet, avendo fatto sorgere nella controparte il ragionevole affidamento che le trattative si sarebbero concluse positivamente, improvvisamente e immotivatamente receda dalla negoziazione oppure rifiuti o pretenda di modificare pattuizioni in precedenza già accettate (per esempio, la quantificazione della pre-money valuation della start-up) o tenga qualsiasi altra condotta qualificabile come “malafede contrattuale”.

Come stabilito dalla giurisprudenza di legittimità:

  • alle ipotesi di responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 c.c. si applica l’art. 1223 c.c., con la conseguenza che il risarcimento deve comprendere sia la perdita subita che il mancato guadagno, purché in relazione immediata e diretta con la lesione dell’affidamento, e non del contratto, consistendo quindi il danno emergente nelle spese sostenute ed il lucro cessante nelle occasioni di lavoro mancate, mentre resta, in ogni caso, escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso (Cass. n. 27648/2011);
  • la responsabilità precontrattuale prevista dall’art. 1337 c.c. può derivare, oltre che dalla rottura ingiustificata delle trattative, anche dalla violazione dell’obbligo di lealtà reciproca, il quale comporta un dovere di completezza informativa circa la reale intenzione di concludere il contratto, senza che alcun mutamento delle circostanze possa risultare idoneo a legittimare la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti nel corso della prosecuzione delle trattative finalizzate alla stipulazione del negozio (Cass. n. 6526/2012);
  • la regola posta dall’art. 1337 c.c. non si riferisce alla sola ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative, ma ha valore di clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in modo preciso e implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o conoscibile con l’ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto. Ne consegue che la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto assume rilievo, non solo in caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace, ma anche nel caso in cui il contratto concluso sia valido e, tuttavia, risulti pregiudizievole per la parte vittima dell’altrui comportamento scorretto (Cass. n. 23873/2013).

La prospettiva di una possibile responsabilità precontrattuale deve essere dunque tenuta in seria considerazione, posto che, specialmente quando la parte da risarcire sia un investitore “istituzionale”, le spese dallo stesso sostenute per l’ingaggio di consulenti per la negoziazione e per la due diligence possono facilmente ammontare a diverse decine di migliaia di euro. Fatte queste necessarie premesse sulla fenomenologia e sugli effetti giuridici delle varie species di accordi ricompresi nel genus del term sheet, è ora possibile considerarne, per forza di cose sinteticamente, il contenuto (secondo l’id quod plerumque accidit).

Anche per semplificare l’esposizione verrà presa in considerazione, qui di seguito, la consueta struttura, adottata per la redazione del term sheet, menzionando le varie sezioni del term sheet (distinte per argomento) e alcune sintetiche note redazionali. Verranno considerate la struttura e le clausole più frequenti di un term sheet relativo a un’ipotizzata operazione di investimento che:

  1. sia effettuato mediante la sottoscrizione di un aumento di capitale da parte di un soggetto che non sia già socio della start-up;
  2. riguardi una start-up costituita in forma di s.r.l.
1. Le parti

In questa sezione vengono riportate le generalità di chi sottoscrive il term sheet; in caso di persone giuridiche, vengono indicati anche i dati dei rispettivi rappresentanti e in forza di quali “poteri” essi agiscono. Talora figura tra le parti anche la start-up, al fine, tra l’altro, di:

  1. divenire “creditrice” dell’obbligo di confidenzialità assunto dal nuovo investitore;
  2. assumere in proprio impegni per dare modo all’investitore di effettuare la due diligence;
  3. assumere in proprio eventuali impegni di esclusiva;
  4. riservarsi la possibilità di dichiarare di profittare delle stipulazioni a suo favore ai sensi dell’art. 1411, comma 2, c.c., sempreché il term sheet non escluda espressamente tale facoltà.
2. Premesse

In questa sezione:

  1. viene individuato il target dell’operazione, ossia la start-up con una sintetica rappresentazione della relativa attività;
  2. viene fatto riferimento:
    • alla compagine sociale della start-up, con l’indicazione delle generalità e della rispettiva quota di partecipazione dei founders;
    • allo statuto vigente della start-up;
    • all’esistenza o meno di patti parasociali tra i founders;
    • al business plan adottato dall’organo amministrativo della start-up;
  3. viene dato atto dell’esistenza tra le parti di una negoziazione riferita al possibile investimento nella start-up da parte del nuovo investitore;
  4. viene chiarito che:
    • il term sheet non è vincolante ai fini del perfezionamento dell’operazione ivi descritta, a eccezione di determinate clausole espressamente individuate (di solito, esclusiva, confidenzialità, legge applicabile e Foro esclusivamente competente);
    • obblighi enforceable delle parti ai fini del perfezionamento dell’operazione ivi descritta sorgeranno solo se e quando (comunque entro il termine di efficacia del term sheet) verranno stipulati accordi definitivi (final and binding), quali il contratto di investimento, i patti parasociali ecc.;
  5. l’investitore esplicita i presupposti su cui si fonda il suo interessamento per il proprio investimento nella start-up.
3. Pre-money valuation

In questa sezione viene espresso in numerario (o, quantomeno, indicato l’algoritmo per quantificare) l’ammontare della pre-money valuation della start-up sulla cui base verrà determinata la percentuale di partecipazione ottenuta dall’investitore a fronte dell’esecuzione dell’ipotizzato apporto.

Il più delle volte l’accordo tra il nuovo investitore e i founders sulla pre- money valuation della start-up presuppone che sia stato definito anche il business plan che dovrà essere implementato dalla stessa società a valle del closing (e che frequentemente viene trasfuso in un apposito allegato al term sheet).

4. I termini e le condizioni dell’investimento

Gli elementi essenziali di un’operazione di venture capital sono costituiti da:

  1. l’entità dell’aumento di capitale, in termini - rispettivamente - di apporto nominale ed eventualmente di soprapprezzo;
  2. l’oggetto del conferimento dell’investitore (in cash e/o in kind);
  3. la tempistica del previsto conferimento, eventualmente suddivisa in tranches in relazione al verificarsi di condizioni sospensive per esempio il raggiungimento di certi risultati (c.d. milestones) e/o al decorso di un dato termine;
  4. la quota c.d. fully diluted (sul punto v. infra) di partecipazione assegnata all’investitore in cambio del previsto conferimento.

Per quota “fully diluted” s’intende la percentuale di capitale rappresentata dalla partecipazione assegnata all’investitore e che viene calcolata considerando come già avvenuto l’esercizio di tutti i diritti di sottoscrizione e/o di conversione in capitale riconosciuti dalla start- up e ancora esercitabili (c.d. outstanding), tra cui i diritti di opzione per la sottoscrizione di nuove quote relative a un aumento di capitale precedentemente deliberato (per esempio, a servizio della conversione di strumenti finanziari partecipativi oppure dell’esercizio di stock options assegnate a key people nell’ambito del relativo piano di incentivazione).

Quanto più il nuovo investitore e founders saranno riusciti ad avanzare nelle negoziazioni preliminari, tanto più saranno definiti tali elementi.

In ogni caso, qualora l’attività di due diligence non sia stata ancora avviata o portata a termine, il nuovo investitore ovviamente si riserverà di confermare (o modificare) i “numeri” dell’operazione, una volta valutati i risultati della stessa due diligence (e una volta ottenuta la delibera favorevole dei propri organi deliberanti).

Nel caso in cui le parti abbiano già sostanzialmente definito i termini economici dell’operazione, il term sheet considera anche:

  1. gli adempimenti degli organi della start-up necessari per arrivare alla delibera di aumento di capitale offerto in sottoscrizione all’investitore;
  2. le caratteristiche dell’aumento di capitale e il termine finale per la relativa sottoscrizione; il più delle volte l’aumento di capitale è “riservato” all’investitore, nel senso che viene escluso il diritto d’opzione dei founders (sul punto v. però infra); dovrà comunque essere stabilito se l’aumento di capitale sarà scindibile, inscindibile, a esecuzione progressiva o meno;
  3. gli impegni dei founders (in termini di voto assembleare e di eventuale rinuncia al diritto d’opzione, qualora il previsto aumento di capitale non sia “riservato”);
  4. il previsto utilizzo che la start-up farà del conferimento ricevuto.

Merita una riflessione il fatto che la deliberazione di un aumento di capitale con esclusione del diritto d’opzione determini nelle s.r.l., ai sensi dell’art. 2481-bis, comma 1, seconda parte, c.c., il diritto di recesso per i soci che non vi abbiano consentito. Ciò può costituire una remora per molti venture capitalists a investire in start-up che, dopo aver lanciato una campagna di raccolta di capitale tramite piattaforme di crowdfunding, si trovino ad avere molti soci.

5. Altre pattuizioni

Come sì è detto, qualora nel possibile investimento sia coinvolto un investitore “istituzionale”, il term sheet di regola stabilisce l’obbligo di esclusiva per la start-up e/o dei founders.

Il più delle volte il term sheet risulta abbastanza generico per quanto riguarda gli altri aspetti dell’operazione di investimento, limitandosi a stabilire le linee-guida essenziali delle quali le parti dovranno tener conto nella successiva fase di negoziazione. Ci si riferisce, in particolare, a:

  1. le legal/business representations and warranties e le connesse clausole di indemnity a beneficio dell’investitore;
  2. le clausole relative a:
    • limiti alla circolazione delle partecipazioni,
    • anti-dilution,
    • corporate governance e deadlock, - key people;
    • liquidation preference;
    • pay-to-play;
    • stand-still;
    • exit.

Nel term sheet è di regola stabilito, secondo una tendenza ormai inarrestabile, che le definitive pattuizioni aventi a oggetto gli argomenti di cui al precedente punto (ii) siano collocate preferenzialmente, nella misura massima consentita dall’ordinamento, nello statuto della start- up (per lo più con il ricorso ai c.d. “particolari diritti” ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c.). Si prevede dunque nel term sheet che il medesimo statuto verrà appositamente modificato nel contesto del closing.

Del resto, le clausole statutarie (per le quali sia regolarmente adempiuta la relativa pubblicità con l’iscrizione nel registro delle imprese):

  1. sono efficaci erga omnes e, quindi, non solo nei confronti delle parti che abbiano preso parte alla fondazione della società, bensì anche:
    • di chi per atto inter vivos o per successione mortis causa subentri nella titolarità della partecipazione di un socio; - di coloro i quali sottoscrivano nuove quote della stessa società in sede di aumento di capitale a pagamento)
    • e di qualsiasi altro terzo (quali, per esempio, i creditori di un socio).
  2. sono dotate di efficacia reale (nel senso che, in caso di loro violazione, sono - normalmente - suscettibili di esecuzione in forma specifica).

I patti parasociali, invece:

  1. sono efficaci inter partes e, quindi, sono insuscettibili - in linea di principio - di essere opposti a chi, per atto inter vivos o per successione mortis causa, subentri nella titolarità della partecipazione di uno dei relativi contraenti;
  2. hanno efficacia meramente obbligatoria.

Per le s.r.l., a differenza di quanto stabilito per le s.p.a. (e per le società che controllino una s.p.a.), non è legislativamente previsto che i patti parasociali, se stipulati a tempo determinato, abbiano una durata massima fissata inderogabilmente per legge.

I soci di una s.r.l. (che non controlli una s.p.a.), possono dunque pattuire un termine di durata dei patti parasociali anche superiore a cinque an-ni (termine applicabile alle s.p.a. e alle società che controllino una s.p.a.), dovendo comunque tener presente che:

  1. un termine di durata eccessivamente lungo potrebbe far qualificare il patto parasociale come a tempo indeterminato, con conseguente diritto di recesso in capo a ciascun aderente in base ai principi generali;
  2. nel caso in cui il patto parasociale ultra-quinquennale contenesse pattuizioni per le quali la legge stabilisce, con norma inderogabile, una durata massima inferiore alla durata “generale” del patto stesso, si dovrà necessariamente prevedere per le suddette pattuizioni una specifica durata, differenziata rispetto a quella “generale” e comunque rispettosa dei limiti temporali prescritti dalla legge (si consideri, per esempio, quanto stabilito dall’art. 1379 c.c. in materia di divieto di alienazione).

Va inoltre tenuto presente, con riferimento specifico alle s.r.l., che lo strumento dei particolari diritti di cui all’art. 2468, comma 3, c.c. (i quali, secondo l’interpretazione ormai dominante nella prassi, possono riguardare anche ambiti diversi e ulteriori rispetto all’amministrazione della società e alla distribuzione degli utili) permette di configurare come diritti statutari la maggior parte dei “privilegi” richiesti normalmente dai venture capitalists.

I patti parasociali, specialmente se riferiti a una s.r.l., sono quindi destinati ormai a svolgere il ruolo di “contenitore” residuale, come nei casi in cui si verifichi una delle seguenti circostanze:

  • siano previste pattuizioni che si vogliono mantenere riservate;
  • si tratti di implementare una pattuizione che, se inserita in statuto, risulterebbe nulla e/o inefficace per contrarietà a una norma inderogabile o a un “profilo tipologico” essenziale della start-up;
  • si voglia evitare che la modifica dello statuto della start-up dia luogo all’insorgere del diritto di recesso.

Qui di seguito è riportata una panoramica, per forza di cose estremamente sintetica, delle pattuizioni che più frequentemente sono prese in considerazione in un term sheet, sia pure - come si è detto - in maniera non particolarmente approfondita.

5.1 I limiti alla circolazione delle partecipazioni
5.1.1 Lock-up e gli impedimenti al trasferimento mortis causa delle partecipazioni

Il più delle volte l’investitore “istituzionale” chiede che i soci della start- up (specialmente qualora si tratti di key people) assumano l’impegno di non porre in essere alcun atto di trasferimento inter vivos a qualsivoglia titolo (anche in garanzia) della rispettiva partecipazione per un dato arco temporale (c.d. lock-up) e accetta di essere anch’esso sottoposto al medesimo vincolo. Sono però spesso previste specifiche eccezioni all’operatività del lock-up che consentono ai founders di monetizzare piccole quote della rispettiva partecipazione, tipicamente per esigenze personali specifiche (rimborso mutui, acquisto casa ecc.).

Nel caso in cui tra i soci della start-up figurino persone fisiche (specialmente qualora si tratti di key people) sono talora previste anche clausole statutarie al fine di escludere il trasferimento mortis causa delle rispettive partecipazioni o di sottoporlo a determinati limiti.

L’art. 2469, comma 2, c.c. ammette che sia statutariamente prevista l’intrasferibilità (anche mortis causa) delle partecipazioni, stabilendo però, come “correttivo”, il diritto di recesso da parte del socio interessato o dei suoi eredi. L’esercitabilità di tale diritto può essere posposto al decorso di un biennio (cfr., a quest’ultimo proposito, la Massima n. 119 della Commissione società del Consiglio notarile di Milano).

5.1.2 Diritto di gradimento

Allo scopo di evitare che il nuovo investitore, una volta entrato in società, possa cedere la sua partecipazione a terzi non graditi dai founders, è possibile - ai sensi del già citato art. 2469, comma 2, c.c. - stabilire nello statuto della start-up che il trasferimento della partecipazione assunta dal medesimo investitore possa essere subordinato al gradimento (placet) da parte di organi sociali e/o di founders. Tuttavia, qualora il rilascio del placet sia totalmente discrezionale, senza cioè la previsione di condizioni e/o limiti (c.d. mero gradimento), la predetta disposizione riconosce il diritto di recesso da parte del nuovo investitore (o dei suoi eredi, qualora lo stesso investitore sia una persona fisica).

Va da sé che siffatta pattuizione sarà ben difficilmente accettata da un investitore “istituzionale”, di regola dotato di un forte “potere contrattuale” e naturalmente votato alla successiva dismissione della partecipazione eventualmente acquisita nella start-up. Un discorso parzialmente diverso potrebbe invece valere per gli investitori “informali”.

5.1.3 Diritto di prelazione

Sempre al fine di mantenere omogenea e inalterata la compagine dei soci, evitando l’ingresso in società di terzi estranei per effetto di atti di trasferimento inter vivos compiuti da un socio, si ricorre spesso, in alternativa o in aggiunta al diritto di mero gradimento (se previsto), alla pattuizione di prelazione il cui “schema classico” (suscettibile peraltro, di rilevanti varianti) prevede che, nel caso in cui un socio intenda vendere, in tutto o in parte, la propria partecipazione, gli altri soci abbiano il diritto di essere preferiti (nell’acquisto) rispetto al prospettato acquirente, “a parità di condizioni”.

Anche il diritto di prelazione è di regola mal “digerito” dagli investitori “istituzionali”, a causa il tipico effetto disincentivante dell’interesse di potenziali terzi acquirenti che ne consegue. A tali investitori risultano maggiormente gradite clausole che, pur prevedendo una certa qual limitazione della libera trasferibilità delle partecipazioni, risultino meno pregiudizievoli rispetto all’ambita prospettiva di exit (si pensi, per esempio alle clausole di first offer/refusal) (v. infra).

5.1.4 Right of first offer/refusal

Alla clausola di first offer/refusal si ricorre nella prassi quando un socio (di minoranza o, comunque, un investitore finanziario) intenda limitare (o, addirittura, escludere) il diritto di prelazione normalmente preteso dagli altri soci (normalmente da quello di maggioranza). Infatti, il diritto di prelazione può costituire, specie dal punto di vista degli investitori finanziari (fisiologicamente orientati al disinvestimento entro un dato arco temporale), un forte deterrente per terzi potenzialmente interessati all’acquisto della partecipazione al capitale della start-up detenuta dagli stessi investitori finanziari; i possibili terzi acquirenti, infatti, dovrebbero sobbarcarsi i costi della due diligence e delle trattative con il rischio di vedersi poi scavalcati dal titolare della prelazione.

In base alla pattuizione di first offer, un socio che intenda vendere la propria partecipazione è tenuto, prima di sollecitare e/o prendere in considerazione offerte di terzi, a comunicare la propria intenzione agli altri soci e, nel contempo, a invitarli a formulare, entro un dato termine, un’offerta di acquisto (che deve contenere tutti gli elementi essenziali della prospettata vendita ed essere irrevocabile per un certo periodo di tempo).

In base, invece, alla pattuizione di first refusal (alternativa a quella di first offer), un socio che intenda vendere la propria partecipazione è tenuto, prima di sollecitare e/o prendere in considerazione offerte di terzi, a comunicare la propria intenzione agli altri soci e, nel contempo, a formulare loro una proposta di vendita. Anche quest’ultima proposta deve contenere tutti gli elementi essenziali della prospettata vendita ed essere irrevocabile per un certo periodo di tempo.

I soci titolari del right of first offer/refusal (c.d. “soci oblati”) hanno la facoltà, ma non l’obbligo, rispettivamente di fare un’offerta di acquisto al socio venditore oppure di accettare la relativa offerta di vendita.

Le successive fasi della procedura variano a seconda che si tratti di right of first offer oppure di right of first refusal.

La pattuizione relativa al right of first offer, di regola, prevede che:

  1. qualora, nel termine a tal fine previsto, nessun socio oblato formuli un’offerta di acquisto che abbia i requisiti prescritti, il socio venditore sarà libero di sollecitare e/o prendere in considerazione offerte di terzi e poi anche di vendere la sua partecipazione, comunque nel rispetto di eventuali altri vincoli parasociali e/o statutari alla circolazione delle partecipazioni (come, per esempio, il diritto di covendita);
  2. qualora, nel termine a tal fine previsto, uno o più soci oblati formuli/no un’offerta di acquisto che abbia i requisiti prescritti, il socio venditore a sua volta avrà la facoltà, ma non l’obbligo, di accertarla. Qualora l’offerta venga accettata, la vendita tra il socio venditore e i soci oblati offerenti dovrà essere perfezionata (comunque nel rispetto di eventuali altri vincoli parasociali e/o statutari alla circolazione delle partecipazioni) in conformità alle condizioni risultanti dalla medesima offerta;
  3. qualora il socio venditore non accetti l’offerta formulatagli da uno o più degli oblati, lo stesso socio venditore sarà libero di sollecitare e/o prendere in considerazione offerte di terzi, ma potrà vendere la sua partecipazione (comunque nel rispetto di eventuali altri vincoli parasociali e/o statutari alla circolazione delle partecipazioni) a condizione che le condizioni economiche di tale vendita siano migliorative (o, perlomeno, non peggiorative) rispetto a quelli contenute nell’offerta degli oblati.

La pattuizione relativa al right of first refusal, di regola, prevede invece che:

  1. qualora, nel termine a tal fine previsto, la proposta di vendita formulata dal socio venditore sia accettata da almeno un socio oblato, la vendita tra il socio venditore e i soci oblati accettanti dovrà essere perfezionata (comunque nel rispetto di eventuali altri vincoli parasociali e/o statutari alla circolazione delle partecipazioni) in conformità alle condizioni risultanti dalla medesima proposta;
  2. qualora, nel termine a tal fine previsto, nessun socio oblato accetti la proposta di vendita formulata dal socio venditore, quest’ultimo sarà libero di sollecitare e/o prendere in considerazione offerte di terzi e poi anche vendere la sua partecipazione a terzi ( comunque nel rispetto di eventuali altri vincoli parasociali e/o statutari alla circolazione delle partecipazioni), a condizione che le condizioni economiche di tale vendita siano migliorative (o, perlomeno, non peggiorative) rispetto a quelli contenute nella predetta proposta.
5.2 Le clausole di anti-dilution

Una tipica richiesta di un qualsiasi investitore finanziario (a maggior ragione qualora si tratti di uno “istituzionale”) è costituita dalla previsione di appositi “meccanismi” grazie ai quali, in caso di aumenti di capitale della start-up riservati a terzi (e, quindi, senza diritto d’opzione) e che prevedano un prezzo di sottoscrizione inferiore rispetto a quello pagato da tale investitore (c.d. rounds down), la partecipazione di quest’ultimo sia incrementata, senza ulteriore esborso, per neutralizzare, in tutto o in parte, il conseguente c.d. “effetto economico diluitivo”.

Si distingue, a tal proposito, tra clausole:

  1. c.d. full ratchet, secondo cui all’investitore beneficiario della clausola di anti-dilution viene attribuita una quota aggiuntiva di capitale della start-up in modo tale da fargli ottenere quella (maggiore) partecipazione che egli avrebbe ottenuto se la pre- money valuation sulla cui base è stato deliberato l’aumento di capitale da lui sottoscritto fosse stata quella stessa alla base del round down; e
  2. c.d. weighted average, secondo cui all’investitore beneficiario della clausola di anti-dilution viene attribuita una quota aggiuntiva di capitale della start-up in modo tale da fargli ottenere quella (maggiore) partecipazione che egli avrebbe ottenuto se la pre- money valuation sulla cui base è stato deliberato l’aumento di capitale da lui sottoscritto fosse stata quella corrispondente alla media ponderata tra (x) tale pre- money valuation e (y) quella alla base del round down.

Nel primo caso, l’effetto economico diluitivo è integralmente neutralizzato; nel secondo, lo è solo parzialmente.

5.3 Le regole di corporate governance

Risultano essenziali per qualsivoglia investitore finanziario (specialmente qualora si tratti di un investitore “istituzionale” ) le clausole che prevedono:

  1. il diritto del medesimo investitore di porre il veto sulle delibere di competenza dei soci relative a materie di rilevanza strategica (quali, per esempio, aumenti di capitale a pagamento, emissioni di strumenti finanziari partecipativi convertibili, compensi degli organi sociali, piani di incentivazione del management, riduzioni di capitale, scioglimento anticipato e liquidazione e altre modifiche statutarie);
  2. il diritto del medesimo investitore di nominare componenti rispettivamente dell’organo amministrativo collegiale e dell’organo di controllo della start-up (se previsto);
  3. la possibilità per i componenti dell’organo amministrativo collegiale nominati dal medesimo investitore di porre il veto su delibere di competenza del medesimo organo (non delegabili) relative a materie di rilevanza strategica (per esempio, l’approvazione e/o la modifica del budget annuale e del business plan, l’approvazione di operazioni di investimento/ disinvestimento o di assunzione di indebitamento oltre certe soglie o non già previste nel budget annuale e/o nel business plan);
  4. la definizione delle deleghe da parte dell’organo amministrativo collegiale a suoi componenti.
5.4 I “meccanismi” di soluzione dell’eventuale deadlock

In tanto in quanto siano previsti:

  1. diritti di veto rispettivamente in sede assembleare a beneficio dell’investitore oppure in sede di organo amministrativo collegiale a beneficio degli amministratori nominati dal medesimo investitore; oppure
  2. quorum deliberativi tali da rendere comunque determinante il voto favorevole rispettivamente dell’investitore, in sede assembleare, oppure degli amministratori nominati dal medesimo investitore, in sede di organo amministrativo collegiale;

si rende normalmente opportuna la previsione di appositi “meccanismi” per la soluzione dell’eventuale “stallo decisionale” (c.d. deadlock), tra i quali si possono citare:

  1. l’opzione (parasociale) che legittima il socio che ha determinato (direttamente o “indirettamente”) il deadlock a vendere la sua partecipazione a uno o più degli altri soci (c.d. put option);
  2. la c.d. Russian roulette clause ossia la pattuizione (per lo più parasociale) che, in caso di deadlock, legittima il socio “A” a notificare al socio “B” una proposta di vendita della sua partecipazione a un prezzo stabilito dallo stesso socio “A”; se il socio “B” rifiuta la proposta, il socio “A” ha diritto di comprare la partecipazione del socio B allo stesso prezzo (pro quota) stabilito nella medesima proposta;
  3. la c.d. Texas shoot-out clause ossia la pattuizione (per lo più parasociale) che, in caso di stallo decisionale, legittima il socio “A” a offrire al socio “B” di comprare tutta la sua partecipazione a un prezzo stabilito dallo stesso socio “A”; il socio “B” può accettare tale offerta oppure può fare, a sua volta, al socio “A” un’offerta per l’acquisto della relativa partecipazione ma a un prezzo (pro quota) più alto di quello stabilito nella di lui proposta; il socio “B” ha la stessa facoltà e il processo può continuare fintantoché un’offerta di un socio sia accettata dall’altro;
  4. la pattuizione (per lo più parasociale) c.d. break up con cui viene disciplinato, in caso di stallo decisionale, il diritto di ciascun socio di porre fine alla joint-venture con la conseguente assegnazione ai soci (in sede di liquidazione oppure mediante lo strumento della scissione totale) dei beni della società partecipata, previo pagamento dei relativi creditori;
  5. le clausole statutarie che attribuiscono al socio che ha determinato (direttamente o “indirettamente”) il deadlock, il diritto di recesso, come ammesso dall’art. 2473, comma 1, c.c.

Peraltro, la prassi conosce anche clausole per la soluzione del deadlock che non comportano l’attivazione di clausole di exit, come, per esempio, quelle che prevedono un procedimento volto alla conciliazione amichevole del contrasto (c.d. cooling-off rule) oppure rimettono la soluzione del contrasto a un terzo (arbitro) indipendente (c.d. arbitration clause).

5.5 Le pattuizioni relative alle key people

In tanto in quanto key people figurino nell’organizzazione della start- up, nel term sheet sono previste le linee-guida per la negoziazione di appositi accordi ancillari che riguardano, in particolare, la “stabilità” e gli obblighi di non concorrenza delle stesse key people, così come eventuali programmi di loro incentivazione.

Tali patti prevedono normalmente un differente trattamento della key person che cessi di svolgere il suo ruolo nella start-up dopo aver assunto l’impegno di “stabilità”, a seconda cioè che si verifichi un caso di “good leaver” oppure di “bad leaver”. Infatti, a fronte dell’eventualità in cui si verifichi un caso di bad leaver (ossia la violazione dell’impegno di “stabilità” non giustificato da ragionevoli motivazioni, quali, per esempio, una sopravvenuta invalidità permanente che renda la key person inabile a svolgere le sue mansioni oppure il mancato pagamento del suo compenso da parte della start- up), sono normalmente previste misure a danno della stessa persona tali da svolgere un congruo effetto “deterrente”, tra cui - principalmente - l’obbligo di pagare una penale di importo considerevole oppure l’obbligo di vendere al valore nominale tutte (o parte del)le quote possedute.

Di regola la stipulazione dei patti di “stabilità” e di non concorrenza è prevista spesso come condizione sospensiva del closing.

5.6 Le clausole di liquidation preference

Nella prassi sono sempre più frequenti le clausole in base alle quali, al verificarsi di certe situazioni accomunate dal fatto di comportare un “flusso monetario” verso i soci della start-up (c.d. liquidity events), quali, per esempio, la distribuzione da parte della stessa società di utili d’esercizio/ riserve/patrimonio netto oppure del residuo patrimoniale netto in sede di liquidazione oppure la ripartizione tra i medesimi soci del ricavato della vendita delle rispettive partecipazioni (c.d. exit proceeds) si deroga alla regola della proporzionalità dei diritti sociali alla quota di partecipazione.

Si distingue, a tal riguardo, tra:

  1. non-participating liquidation preference secondo cui, in caso di liquidity events:
    • ad alcuni soci (c.d. “privilegiati”) ossia, di regola, gli investitori finanziari è riconosciuto il diritto di incassare, prioritariamente rispetto agli altri soci (c.d. “ordinari”), una parte delle somme distribuibili, fintantoché i medesimi soci “privilegiati” non abbiano incassato un ammontare pari al rispettivo investimento maggiorato di un certo tasso interno di rendimento (o internal rate of return – IRR);
    • le somme (eventualmente) residuanti dopo la “prima” distribuzione vengono suddivise tra i soci “ordinari” fino a quando anche loro non abbiano incassato un ammontare pari al rispettivo investimento maggiorato dello stesso IRR applicato a beneficio dell’investitore “privilegiato” (c.d. catch up);
    • le somme (eventualmente) residuanti dopo la “seconda” distribuzione vengono distribuite tra tutti i soci, siano essi “privilegiati” o “ordinari”, in proporzione alla rispettiva partecipazione al capitale della start-up;
  2. full participating liquidation preference secondo cui, in caso di liquidity events:
    • ai soci “privilegiati” è riconosciuto il diritto di incassare, prioritariamente rispetto ai soci “ordinari”, una parte delle somme distribuibili, fintantoché i medesimi soci “privilegiati” non abbiano incassato un ammontare pari al rispettivo investimento maggiorato di un certo IRR;
    • le somme (eventualmente) residuanti dopo la “prima distribuzione vengono suddivise tra tutti i soci, siano essi “ordinari” o “privilegiati”, in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione al capitale della start-up;
  3. capped participating liquidation preference che costituisce una variante rispetto a quella di cui al precedente punto (2) nel senso che:
    • i soci “privilegiati” hanno sì diritto di partecipare alla “seconda” distribuzione in concorso con i soci “ordinari”, ma fino a un certo limite massimo (c.d. cap), di norma corrispondente a un certo multiplo dell’importo spettante ai soci “privilegiati” in base alla loro quota di partecipazione al capitale della start-up;
    • le somme (eventualmente) residuanti dopo il raggiungimento del cap da parte degli investitori “privilegiati” vengono suddivise esclusivamente tra i soci “ordinari” in proporzione alla rispettiva quota di partecipazione al capitale della start-up

Gli investitori finanziari saranno portati a riconoscere alla start-up una pre-money valuation tanto più alta (e, quindi, a pagare un “prezzo” tanto più alto per l’acquisizione della propria partecipazione) quanto più riusciranno a ottenere i benefici di liquidation preference. Per altro verso, va dunque da sé che i founders dovranno prestare particolare attenzione a non farsi allettare da pre-money valuation particolarmente alte, qualora - come “contropartita” - siano richieste clausole come quelle, sopra descritte, di full participating liquidation preference.

5.7 Le clausole di pay-to-play e di stand-still

Val la pena di segnalare, soprattutto nell’interesse dei founders, anche la clausola c.d. pay-to-play che “sanziona” i soci “privilegiati” i quali, pur avendone la possibilità (essendo riconosciuto loro il diritto d’opzione pro quota) decidano di “non seguire”, in tutto o in parte, i successivi aumenti di capitale della start-up.

In tale caso, la “sanzione” è costituita dalla perdita di “privilegi”, quali, per esempio, la “protezione” di anti-dilution, il diritto di designare membri dell’organo amministrativo collegiale (c.d. board representation) oppure il diritto di esprimere il veto in relazione a certe decisioni rimesse alla competenza dei soci.

Analoga, quanto a conseguenze “sanzionatorie”, ma diversa, quanto a presupposto, è la clausola - che si potrebbe definire di stand-still - che riconnette la perdita di “privilegi” al fatto che un certo socio “privilegiato” venda (o altrimenti disponga di) parte della sua partecipazione in modo da farla scendere al di sotto di una certa percentuale minima (c.d. threshold).

5.8 Le clausole di exit

Nel caso in cui l’operazione consista nell’investimento nella start- up da parte di un investitore “istituzionale” (soprattutto qualora si tratti di un fondo di investimento mobiliare di tipo chiuso il quale, in base al relativo regolamento, deve obbligatoriamente dismettere le partecipazioni acquisite entro termini prestabiliti) nel term sheet sono normalmente stabilite le linee-guida per la successiva definizione dei “meccanismi” implementabili ai fini dell’exit del medesimo investitore.

Le pattuizioni a servizio del “diritto di exit”, pur presentando nella prassi una notevolissima varietà, sono organizzate secondo una determinata sequenza temporale. Qui di seguito ne verranno considerate, in maniera assolutamente introduttiva, solo le principali tipologie.

Tali clausole opereranno, ovviamente, dopo la scadenza del termine di efficacia del vincolo di lock-up, ove previsto.

5.8.1 L’IPO e l’OPV

In primo luogo, viene di regola considerata la possibilità della quotazione della start-up in un mercato regolamentato oppure in un sistema multilaterale di negoziazione oppure in qualsiasi altra sede di quotazione (c.d. initial public offering o, semplicemente, IPO), ovviamente nell’ipotesi in cui il percorso di crescita di tale società abbia esito particolarmente positivo.

In relazione alla prospettiva dell’IPO sono consuete le pattuizioni (contenute per lo più in un patto parasociale) secondo cui, per quanto possibile, la struttura della stessa IPO debba comprendere una componente di offerta pubblica di vendita (c.d. OPV) e che, in quella sede, certi soci (ossia, di regola, i soci finanziari) abbiano il diritto (ma non il dovere) di vendere una certa aliquota della loro partecipazione con priorità rispetto agli altri soci.

5.8.2 Le put & call options

Qualora l’exit non sia realizzato attraverso l’IPO entro un dato termine, sono ordinariamente previste altre possibili soluzioni di exit a beneficio dell’investitore “istituzionale”, tra cui, in primo luogo, la clausola di put option (comprensibilmente non facile da far accettare ai founders).

La put option costituisce la soluzione più semplice per attribuire al titolare di una partecipazione il diritto di disfarsene, obbligando altri al relativo acquisto. In linea con la giurisprudenza più recente si dovrà però aver cura di strutturare il prezzo di esercizio dell’opzione (c.d. strike price), che deve essere determinato o determinabile, in modo da non violare il divieto di patto leonino di cui all’art. 2265 c.c.

Relativamente più facile sarà per l’investitore “istituzionale” ottenere dai founders la concessione della put option a condizione di concedere, a sua volta, agli stessi founders l’opzione di acquisto (c.d. call option) della sua partecipazione nella start-up.

5.8.3 Il trade sale attraverso il mandato a vendere

Nelle operazioni venture capital è utilizzata frequentemente, in funzione dell’exit dell’investitore “istituzionale”, anche la pattuizione c.d. di trade sale (di regola più facilmente accettabile dai founders) con cui, subordinatamente al verificarsi di un determinato fatto (c.d. trigger event), costituito da una certa condizione sospensiva (per esempio,la mancata IPO della società partecipata entro un dato termine) o, semplicemente, dal raggiungimento di un termine prestabilito senza che l’investitore abbia dismesso la sua partecipazione, tutti i soci sono tenuti a mettere in vendita congiuntamente la rispettiva partecipazione, obbligandosi (ora per allora) a conferire un apposito mandato (irrevocabile) a un advisor affinché organizzi la relativa procedura di vendita, se del caso mediante una vera e propria asta.

5.8.4 Il diritto di recesso

Risulta, invece, scarsamente utilizzata nella prassi, sempre in funzione dell’exit dell’investitore “istituzionale”, la soluzione (ovviamente statutaria) del recesso c.d. “convenzionale” (ossia esercitabile sulla base del verificarsi di circostanze ulteriori rispetto a quelle che attribuiscono inderogabilmente il diritto di recesso ai sensi dell’art. 2473, comma 1, c.c.) oppure del recesso ad nutum (dovuto cioè alla mera volontà del socio interessato, a prescindere dal verificarsi di condizioni o di presupposti obiettivamente riscontabili).

5.8.5 Il diritto di covendita

Sempre nell’ottica dell’exit dell’investitore “istituzionale” è normalmente inserita nello statuto della start-up la clausola di covendita (c.d. tag-along) che è caratterizzata da una struttura “a geometria variabile”, in quanto, a seconda della tecnica redazionaleadottata variano significativamente la qualificazione delle posizioni giuridiche, rispettivamente attive e passive, dei soggetti coinvolti.

Lo schema più semplice prevede che il socio intenzionato a vendere la sua partecipazione prometta, assumendo un’obbligazione (solo) di mezzi, di fare del suo meglio affinché il prospettato acquirente si impegni ad acquistare, alle “medesime condizioni”, anche la partecipazione (a seconda dei casi totale o proporzionale) dei soci titolari del diritto di covendita, qualora gli stessi intendano avvalersene.

Un secondo schema prevede che il socio venditore prometta, assumendo un’obbligazione di risultato, che il prospettato acquirente si impegni ad acquistare, alle “medesime condizioni”, anche la partecipazione (a seconda dei casi totale o proporzionale) dei soci titolari del diritto di covendita, qualora gli stessi intendano avvalersene. Un terzo schema prevede che il socio venditore assuma l’impegno di non procedere alla prospettata vendita, se non dopo aver messo i soci titolari del diritto di covendita in grado di vendere al prospettato acquirente alle “medesime condizioni” la loro rispettiva partecipazione (a seconda dei casi totale o proporzionale), qualora gli stessi intendano avvalersi del medesimo diritto.

Un quarto schema prevede che, qualora il prospettato acquirente si rifiuti di estendere il suo acquisto anche alla proporzionale quota dei titolari del diritto di covendita che abbiano dichiarato di volersene avvalere, il socio venditore non possa procedere alla prospettata vendita, ma debba ridurre la quantità della sua partecipazione in vendita in modo tale che egli stesso e i soci covenditori possano partecipare alla prospettata vendita nella medesima proporzione.

5.8.6 Il diritto di trascinamento

Una sorta di contraltare della clausola di covendita è costituito dalla clausola di trascinamento (c.d. drag-along) che attribuisce a un socio (di regola, ma non necessariamente, di maggioranza) il diritto di negoziare la vendita, non solo della propria partecipazione, ma anche di quella di altri soci (di regola, ma non necessariamente, di minoranza), i quali sono obbligati a covendere contestualmente, a loro volta, le rispettive partecipazioni (di regola, ma non necessariamente, alle “medesime condizioni”) al terzo individuato dal socio titolare del diritto di trascinamento. Tale pattuizione permette al socio “trascinante”, da un lato, di massimizzare il ricavato del disinvestimento della propria partecipazione, potendo ingaggiare negoziazioni con possibili acquirenti interessati ad acquistare anche le partecipazioni degli altri soci, e, dall’altro lato, di neutralizzare il rischio di possibili comportamenti opportunistici/ostruzionistici di questi ultimi.

La clausola di trascinamento risulta, comprensibilmente, difficile da far accettare all’investitore “istituzionale” titolare di una partecipazione di minoranza, a meno che sia stabilito nella medesima pattuizione che, in caso di forzata vendita, al medesimo investitore sia attribuito un prezzo minimo (c.d. floor) da lui ritenuto idoneo a realizzare un sufficiente ritorno economico sull’investimento.

In linea con la giurisprudenza più recente e con gli orientamenti della prassi notarile ormai consolidata, la clausola di trascinamento può essere introdotta in statuto:

  • solo con il consenso unanime dei soci, qualora si tratti di attribuire il diritto di trascinamento solo ad alcuni di essi (individuabili anche per relationem, come nel caso in cui il medesimo diritto sia esercitabile dal socio che, tempo per tempo, sia titolare della maggioranza del capitale sociale);
  • sempreché rispetti il principio di equa valorizzazione della partecipazione obbligatoriamente dismessa, garantendo al socio “trascinato” almeno il valore che gli sarebbe spettato, secondo i criteri di legge, in caso di recesso.
6. Pattuizioni finali

In questa sezione sono disciplinati, a “chiusura” del documento:

  1. la tempistica per il completamento, auspicabilmente positivo, delle ulteriori negoziazioni tra le parti, con l’indicazione, rispettivamente, del termine per il signing e per il closing;
  2. gli obblighi di riservatezza delle parti;
  3. la legge applicabile;
  4. giurisdizione/competenza in caso di controversie.

Napoli

Corso Nicolangelo Protopisani, 50
80146
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Milano

Piazzale Luigi Cadorna, 4
20123
Italia
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Bologna

Via Alessandrini, 26
40126
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