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N° 3

I QUADERNI DI MATERIAS


Dal brevetto al copyright.

Il diritto di proprietà intellettuale come leva dello sviluppo industriale e commerciale.
Suggerimenti e strategie per difendere la propria innovazione.

A colloquio con Gustavo Ghidini

Emerito dell’Università degli Studi di Milano
Senior professor di Diritto industriale nell’Università Luiss di Roma

03 - 2021

ISBN: 9788899620080


Prefazione

di Luigi Nicolais, presidente di Materias

Oggi più che mai la politica ha bisogno della scienza.

In una delicata e fragile fase della nostra storia, che Gramsci avrebbe definito dell’interregno, le decisioni politiche adottate devono essere informate e nascere come la risultante di una seria analisi di carattere scientifico, economico e sociale dei problemi del nostro sistema Paese e delle potenziali opportunità. Il nostro grande patrimonio immateriale in ambito di ricerca e innovazione è destinato ad assumere un ruolo sempre più centrale, attraverso un contributo lucido e razionale alla transizione di una società basata sulla conoscenza.

In questo numero dei quaderni di Materias parliamo di proprietà intellettuale, una tematica strategica che presenta rilevanti implicazioni, non solo dal punto di vista economico e occupazionale, ma soprattutto in termini di sviluppo territoriale. In uno scenario interconnesso, i brevetti e i relativi diritti, danno un vantaggio competitivo non solo a chi li tutela a livello nazionale ed internazionale, ma anche a chi è capace di valorizzarli.

Si tratta di un’attività complessa che richiede un ecosistema dell’innovazione basato su una collaborazione attiva tra pubblico e privato e un costante sforzo di coordinamento e di armonizzazione in un’ottica win-win.

Dai risultati di una recente relazione congiunta pubblicata dall’Ufficio europeo dei brevetti (UEB) e dall’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO), che analizza la rilevanza dei diritti di proprietà intellettuale per l’economia dell’UE sono emersi due macro- trend, forieri di cambiamento: la sempre maggiore rilevanza acquisita dai beni intangibili in rapporto ai beni tangibili e l’evidenza che le imprese che fanno un uso intensivo dei diritti di proprietà intellettuale (DPI), generano ogni anno il 45% del PIL (6 600 miliardi di EUR) nell’UE, rappresentando 63 milioni di posti di lavoro (il 29% del totale). Visto il rimarchevole dato, ne consegue che la proprietà intellettuale è una delle colonne portanti dell’economia europea ed internazionale e per queste ragioni deve essere incoraggiata e sostenuta e il nostro Paese può giocare il suo ruolo valorizzando la ricerca made in Italy dei giovani innovatori e contrastare il triste fenomeno del brain drain.

Ed in questo processo devono partecipare tutti gli attori al fine di creare un circolo virtuoso che coinvolga nella valorizzazione della proprietà intellettuale sia le politiche di innovazione che il sistema universitario e della ricerca.

1. Brevetti, i danni fai da te
Guida alla formulazione della domanda da depositare

Quante volte ci sarà capitato di sentire in ambito accademico, industriale e professionale l’espressione “ho avuto un’idea”? Sicuramente, tantissime volte. In quanti casi, però, possiamo affermare che tali idee siano poi diventate invenzioni, marchi, brevetti registrati, brevetti registrati, procedimenti e prassi consolidate a disposizione della società o prodotti di successo alla portata di tutti? Raramente. E con mille difficoltà. Il professore ed avvocato Gustavo Ghidini, emerito dell’Università degli Studi di Milano e senior professor di Diritto industriale presso l’Università Luiss di Roma, ci aiuta in questo nuovo numero dei Quaderni di Materias a districarci in una matassa per niente facile, in cui le insidie del mercato, le trappole celate nella burocrazia e l’improvvisazione rappresentano ostacoli talvolta insormontabili per idee brillanti che potrebbero rivelarsi di grande beneficio per la collettività ma che spesso che finiscono per morire sul nascere o, peggio ancora, passare alla concorrenza. Ecco una breve guida per difendere le proprie innovazioni dai competitor e dall’approssimazione, evitando di compiere passi falsi nelle prime fasi del lungo e tortuoso percorso verso la protezione intellettuale.

Professor Ghidini, il successo di un’innovazione passa sempre più frequentemente per la protezione intellettuale dell’idea. Soprattutto, in sede scientifica. Laddove l’intuizione del ricercatore aspetta di essere valorizzata, e protetta, per poter poi arrivare al mercato. Qual è la prima cosa che si sente di consigliare a chi ha tra le mani uno studio innovativo e mira a farne un prodotto?

“La prima cosa da fare è chiedere ad un Ufficio brevetti di buona reputazione di compiere una ‘ricerca di anteriorità’, di raggio internazionale, per verificare che l’invenzione non sia stata precedentemente brevettata – o ne sia stata fatta domanda – da terzi, italiani o stranieri. In caso di risposta positiva per l’inventore, occorre rivolgersi ad un avvocato esperto della materia brevettuale perché ‘guidi’ l’Ufficio brevetti rispetto alla formulazione della domanda di brevetto da depositare. Per ‘guidi’ – intendo – sul piano giuridico. Ad esempio, suggerendo un duplice deposito a titolo di invenzione e di modello di utilità, se l’innovazione consista in una originale disposizione di congegni in sé singolarmente noti. E ancora: suggerendo una formulazione della domanda che copra diverse ‘variazioni’ della invenzione base, al fine di prevenire contraffazioni per equivalenti”.

E in caso negativo?

“In caso negativo, bisogna proteggere la ideazione con il regime di segreto, e quindi – ancora con la guida di un avvocato esperto del ramo – compiere i seguenti passi. Attribuire, anche in bilancio, nella voce beni immateriali, un significativo valore economico all’invenzione, parametrato sia allo sfruttamento diretto sia a quello per licenze a terzi; ciò anche al fine del risarcimento dei danni in caso di violazione del segreto da parte di dipendenti e/o collaboratori o concorrenti. Dopodiché bisognerà apporre sui documenti e corrispondenza che all’interno dell’azienda (dipendenti addetti alla R&D, in particolare) e/o nella eventuale corrispondenza con fornitori ‘a monte’ ovvero distributori ‘a valle’ del prodotto o macchina o impianto o processo ideato, chiare avvertenze tipo ‘SEGRETO’, ‘strettamente riservato al Sig...’ e simili. Avvertenze, insomma, che indichino con certezza la volontà del titolare di tener riservate le informazioni relative alla ideazione. In tutti questi passaggi, è fondamentale servirsi di esperti professionisti. Il ‘fai da te’, in materia di brevetti può molto facilmente produrre danni irreparabili e perdite di occasioni preziose”.

2. Cultura industriale e proprietà intellettuale (PI)
Ecco ciò che manca alle aziende italiane

Si può parlare oggi, anche in Italia, di cultura della proprietà intellettuale senza apparire estremamente visionari o sognatori? Si può e si deve. Il tessuto imprenditoriale nazionale è formato per gran parte da piccole e medie aziende, realtà nate dall’intuizione di singoli lavoratori/ professionisti/ artigiani o lungo i confini di grandi industrie, come satelliti di grossi colossi internazionali. Si tratta di iniziative private che fondano il proprio know how su sapienza, conoscenza, abilità e visione, ma che non sempre colgono le opportunità della difesa delle loro origini o della possibilità di espandere il proprio business tutelando prassi e risultati di successo. Un grosso deficit che rischia di riverberarsi su tutta l’attività, frenando processi di sviluppo industriale e commerciale altrimenti inesorabili e dirompenti. La proprietà intellettuale resta così sempre più spesso sullo sfondo, diventando quasi un argomento tabù, a cui si approccia in casi estremi e per incidenti di percorso, senza avere la benché minima consapevolezza della leva che essa può invece attivare in termini di sviluppo aziendale.

Professor Ghidini, quanto conta la conoscenza degli strumenti di protezione della proprietà intellettuale nel rapporto tra l’impresa e gli inventori?

“Moltissimo, ovviamente, anche per quanto detto sopra. Ma non solo. Il problema è che una ‘cultura industriale’ della proprietà intellettuale (PI) è in Italia, di solito, appannaggio delle imprese di maggiori dimensioni. E si sa che la nostra struttura imprenditoriale è fatta al 90% da imprese di modeste dimensioni. E queste – ripeto, di solito ma ci sono ottime eccezioni – si preoccupano della PI quando hanno una ‘grana’: se un loro brevetto è contraffatto, o se all’opposto vogliono attaccare un brevetto altrui, o sono attrici o convenute in una questione di concorrenza sleale ecc. Allora ‘vanno dall’avvocato’: per quello, o altro, singolo caso. Insomma, non considerano l’uso della PI come uno strumento ordinario, costante, del fare azienda”.

Lo sfruttamento economico della IP può rivelarsi un asset strategico per l’impresa? È una leva dell’innovazione?

“I diritti di proprietà intellettuale (DPI), cioè brevetti, marchi, copyright, sono strumenti non solo di ‘attacco’ o ‘difesa’ episodici, e dunque ausili preziosi sia di protezione della innovazione e della ‘immagine di marca’ rispetto a contraffattori e concorrenti sleali, bensì anche di sviluppo industriale e commerciale. Questo in particolare, attraverso politiche di licenze, anche incrociate, con terzi (fornitori, distributori, produttori di elementi industriali integrativi dei prodotti finali dell’azienda). E ancora, attraverso licenze di marchio, dal merchandising al franchising, alla distribuzione selettiva, licenze di export e/o import. Insomma, un ruolo dinamico, che ‘moltiplica’ le chances di sviluppo aziendale: in senso sia merceologico, sia territoriale”.

3. L’IP Strategist in azienda
Una figura deputata all’uso difensivo/offensivo dei diritti di proprietà intellettuale

La difesa della proprietà intellettuale può diventare un vero e proprio mestiere. Certo, si tratta di una figura professionale nuova, che difficilmente è possibile ritrovare oggi in piccoli contesti ma che inizia a farsi notare anche nel nostro Paese. Soprattutto nelle grandi industrie. L’IP Strategist o l’Intellectual property manager (IP Manager) è colui che si occupa della proprietà intellettuale e anche dell’innovazione. Il suo “pane quotidiano” si chiama diritto d’autore, marchi, brand, domain, brevetti, software, design, marketing e pubblicità della proprietà intellettuale, trade secret, security, data base, biotech, brand valuation, negoziazione e drafting di contratti, sfruttamento e cessione dei diritti di proprietà intellettuale, risoluzione di controversie commerciali, mercati esteri. Ciò presuppone un aggiornamento continuo in fatto di leggi, interventi normativi e un contatto costante con gli interlocutori dell’azienda che rappresenta. Fa da cerniera tra lo studio (che solitamente è esterno) deputato al deposito dei brevetti, i legali e i ricercatori. Chiunque abbia voglia di farsi notare per prodotti ad alto contenuto di conoscenza deve pensare di dotarsi di una figura di questo genere. La tecnologia, soprattutto quella digitale, sembra vivere un trend favorevole ed inarrestabile nel mercato globale ma risulta anche facilmente replicabile. Serve pertanto una figura che tuteli tali invenzioni/innovazioni sin dalle sue fasi iniziali.

Alla luce di una corretta competizione economica, come valuta l’opportunità di gestione degli asset immateriali dell’azienda, dei suoi diritti di esclusiva finalizzati alla valorizzazione dell’innovazione e dell’identità aziendale?

“Si tratta, per quanto già detto, di una grande opportunità, anzi direi necessità. Ma, sempre a proposito di ‘cultura della PI’, solo le grandi imprese – e neppure tutte – hanno una figura professionale di ‘IP strategist’. Una figura che sovrintenda sia all’uso ‘difensivo/ offensivo’ dei diritti di proprietà intellettuale (DPI) e della disciplina della concorrenza sleale (CS), bensì anche allo sfruttamento proattivo, diciamo: nel senso delle politiche di cui agli esempi fatti rispondendo alla domanda precedente. Aggiungo che le PMI potrebbero fare uno sforzo ‘consortile’ di dotarsi di figure di questo tipo ‘in comune’: come avviene per agenti e distributori plurimandatari. E sarebbe anche assai utile, poi, che qualche Università di orientamento economico moderno, istituisse un Corso, o un Master, dedicato appunto alla formazione di questa figura professionale: l’IP Strategist, appunto”.

4. Telepass per il diritto d’autore
Un sistema di accesso libero pagante per l’utilizzo del web di contenuti coperti da copyright

Una Direttiva sul diritto d’autore in Internet già c’è, è la 2019/790 dell’Unione europea, che punta ad armonizzare il quadro normativo comunitario per l’utilizzo di contenuti protetti da copyright sul web. Ma spesso è disattesa o, peggio ancora, snobbata. Così la possibilità per gli editori di richiedere il pagamento per l’uso dei propri testi da parte dei siti a scopo di lucro si fa sempre più remota. Stesso discorso vale per l’estrazione di dati da parte di istituti di ricerca scientifica.

Cosa pensa invece del diritto al compenso degli editori di giornali e riviste rispetto all’uso di loro contenuti da parte delle grandi piattaforme del web?
Come meglio attuare in Italia la Direttiva sul copyright?

Si dovrebbe istituire un sistema di accesso libero pagante, gestito, in default di accordi privati interindividuali, da società di gestione dei diritti d’autore, tipo SIAE. Questo sistema consentirebbe di remunerare equamente gli editori, in proporzione alle vendite delle singole testate e all’ampiezza del testo usato dalle piattaforme (20 righe del Corriere valgono più di 20 dell’Eco di Forlimpopoli), senza rallentare la fluidità e la rapidità di circolazione delle informazioni. Si dovrebbe dunque adottare un paradigma di copyright non escludente (se non nei confronti di free riders), bensì appunto ‘aperto (ma) a pagamento’. Un paradigma, faccio notare, già accolto nella legge sul diritto d’autore (art 99.1) e nel codice civile (art 2578) a proposito dei progetti di lavori di ingegneria e analoghi. Non ti blocco se paghi la tariffa stabilita. Come con un telepass, in cui paghi secondo la cilindrata, e la sbarra si alza senza farti fermare. Ecco: occorre un Telepass per il diritto d’autore sui contenuti prodotti da giornali e riviste e usati dalle piattaforme del web!

A che punto è, infine, la protezione della intelligenza artificiale attraverso brevetti e copyright?

“Una situazione ambigua, ma che credo in via di superamento a favore dell’ammissibilità di brevetto e copyright. In poche parole, se un brevetto o un’opera letteraria o musicale etc viene presentata con la indicazione di un robot come autore, è attualmente del tutto probabile (con l’eccezione della Cina, di cui dirò subito) che sia in EU sia in USA la tutela venga ‘bocciata’. Motivo: brevetti e copyright sono stati istituiti per difendere i frutti dell’ingegno umano, non di una ‘macchina’. Di fatto, tuttavia, su migliaia e migliaia di invenzioni ‘robotiche’ è stato ed è tuttora richiesto e concesso il brevetto, e riconosciuto il copyright, in quanto presentate come invenzioni di software – ormai da decenni brevettate – indicandosi come autori umani i progettisti e ingegneri del software che usa un algoritmo ‘intelligente’ . In fondo, non si tratta di un escamotage. L’algoritmo non è forse software?! Come ha statuito di recente una Corte di Shenzen (novembre 2019), giudicando di un articolo scritto, dichiaratamente, da un robot, l’autore umano c’è, eccome: il team di ingegneri e altri tecnici che ha creato l’algoritmo per realizzare una certa funzione – voluta dal team – e lo ha nutrito dei dati originari su cui ‘lavorare’ e produrre il risultato. Soluzione realistica e giusta, chiaramente estensibile al campo dei brevetti. E giusta, ripeto: non solo perché difende i frutti dell’ingegno umano che ha creato, diretto e ‘nutrito’ il robot. Ma perché con quella difesa si incentiva lo sviluppo di una tecnologia che accresce obiettivamente il patrimonio tecnologico, scientifico e artistico. Auctor da augere: accrescere”.

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